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Il peposo: storia di un’eccellenza culinaria toscana

Nebbia, vento, pioggia o sole gli operai delle fornaci di terracotta dell’Impruneta dovevano partire sempre molto presto dai borghi che sorgevano intorno alla collina: lasciavano le povere case, pregne del fumo del caminetto e del sentore di stalla – a piedi o cavalcando a pelle un somaro, i più fortunati – per giungere in tempo al lavoro; a volte occorrevano ore…vita dura a quei tempi!
 
Parliamo del 1400, quando la fame era tanta, di lavoro ce n’era poco e gli operai erano trattati peggio dell’asino sul quale si recavano al lavoro.
 
Le fornaci sfornavano mattoni e orci rossastri che andavano a costituire la forma essenziale dell’architettura toscana. Mattoni, coppi, vasi e orci, ma anche statue, decorazioni colonne e tutto ciò che si poteva realizzare grazie alla rossa argilla locale, erano distribuiti in tutta la Toscana.
 
Tante le persone impiegate in quella particolare industria e tutte dovevano nutrirsi adeguatamente per restare in forza e produrre.
Il tozzo di pane e la crosta di formaggio che i più portavano nella logora bisaccia, non poteva bastare. Il lavoro era duro: un minimo dodici ore a scavare e impastare l’argilla, formare e cuocere i manufatti e la necessità di un pasto caldo e nutriente si faceva sentire.
 
Ecco come nasce – dettato dall’esigenza e dalle limitate disponibilità – un cibo povero, ma corroborante e saporito: il peposo.
 
Poca carne umile, callosa, piena di grasso e sicuramente non perfettamente fresca; qualche pomodoro maturo sottratto all’orto di casa, un pezzo di grasso di maiale (di olio d’oliva non se ne parlava…quello era destinato ai proprietari della terra), pepe abbondante, qualche spicchio d’aglio e del vino rosso: rustico Chianti, ricco di tannino ma profumato e perfetto per creare il sugo nel quale intingere il pane.
In effetti, di carne non ce n’era tanta e il sugo denso, rosso scuro e soprattutto piccante, favoriva l’abbondante uso del pane raffermo che, quello sì, costava poco ed era disponibile in abbondanza!
Il pepe macinato grossolanamente e aggiunto in grande quantità, serviva a insaporire il cibo, ma soprattutto a mitigare quel frazio – antico termine toscano per definire l’odore non gradevole, anche se non proprio nauseante – tipico della carne vecchia di qualche giorno.
Tutti gli ingredienti erano poi miscelati sapientemente e posti a cuocere in un recipiente adatto all’uso.
E visto l’ambiente, dove preparare questo cibo se non in un vaso di terracotta?
Questo era sistemato all’imboccatura del forno della terracotta, all’inizio del turno, presto la mattina e il peposo, cocendo pianissimo, arrivava a essere pronto per la fine del turno.
Il risultato? Una pietanza ricca di sapore, calda, nutriente, ma soprattutto economica.
 
Per la ricetta vedi il N.1 della nostra rivista, in programma per i primi di maggio.